La palazzina Liberty, alla fine degli anni ’70, era qualcosa di più di un teatro. Arrivavi in questa area un po’ fatiscente, ma vissuta, che non dava spazio a nessun fronzolo decorativo, ma che rappresentava un modello, e ti trovavi di fronte un palcoscenico basso, una platea senza sedie: ti sedevi per terra con le gambe incrociate e partecipavi all’evento del teatro civile, di lotta, la manifestazione culturale delle idee che nella città vibravano, la agitavano, la rendevano inquieta.

E’ così che ho visto il mio primo spettacolo di Franca Rame, il monologo “Tutta casa, letto e chiesa”. Ma il ricordo più vibrante di quegli spettacoli, era il dopo, quando lei si fermava a discutere con i ragazzi, con le persone che avevano partecipato all’happening.

Quando andai alla prima dello “Stupro”, mi ricordo che lo feci di malavoglia, perché sapevo che in quell’occasione non ci sarebbe stato lo sberleffo, non ci sarebbe stato da sorridere, da ridere; mi sarei dovuto aspettare la drammatica rappresentazione di una tragedia che a quell’epoca aveva avuto poche rappresentazioni. Di stupro non ne parlava nessuno, soprattutto chi ne era vittima. La stessa parola stupro, era stuprante, respingente; quindi mi presentai come si farebbe a un’assemblea di partito: per un dovere.

Il mio ricordo è vivido come se fosse oggi. La Rame ci lasciò senza fiato, senza la capacità di respirare, in un silenzio irreale, qualcosa che smuoveva le coscienze dall’interno, come un’indignazione, una vergogna. Sì, una vergogna: la vergogna di essere maschio, di sentire di appartenere a una categoria, a un genere, che in quel momento era molto più che deprecabile, disgustoso.

Alla fine dello spettacolo, i complimenti e i convenevoli e le solite quattro chiacchiere e io le dissi (allora ero un ragazzino, poco più che quindicenne): “mi ha fatto provare vergogna di essere maschio”. Lei, sorridente, mi rispose: “fai bene, questo ti aiuterà a diventare un uomo”.

Facevo fatica a immaginare fosse lei la protagonista di quel racconto, così serena, ma, nello stesso tempo, ferita. La rabbia, la vergogna erano diventate così un fatto comune, una cosa che lei aveva condiviso con noi giovani militanti della sinistra alternativa, come un patrimonio che andava a formare una cultura e un vissuto comune, uno stato d’animo collettivo.

Non puoi dire di conoscere Franca Rame per le sue apparizioni televisive, per la sua appartenenza a un partito o a un altro; puoi dire di avere conosciuto Franca Rame solo se l’hai vista in teatro; solo se ne hai sentito quella vibrazione umana e quella capacità di trasferire emozioni, unica.

Ma quelli erano anni straordinari. Camminando per Milano potevi scegliere di andare alla palazzina Liberty a vedere Franca Rame e Dario Fo, o in via Larga ad assistere al teatro canzone di Gaber, o al Teatro dell’Elfo, e perderti nel Sogno di una notte di Mezza Estate con Elio De Capitani, Salvatores; o, ancora, alla Casa della cultura diretta da Scarpelli.

O magari, se avevi voglia e un po’ più di soldi in tasca, potevi fare un salto al Ciak di Milano, o al Nuovo a seguire Albertazzi. O se eri un po’ trasgressivo potevi passare i sabati sera all’happening del Rocky Horror Picture Show, al cinema Messico.

Milano era pulsante, piena di sollecitazioni, vibrazioni, di contributi, pulsioni: era lo specchio di un intero paese. Certo, da una parte c’erano anche gli indiani metropolitani, suggestivi e pittoreschi, oppure il sabato dovevi stare attento agli autonomi che facevano l’autoriduzione.

L’aspetto politico della città di quegli anni è sicuramente il meno rilevante, il meno interessante. La città guidata dai socialisti era comunque una città dialogante, il valore di questa città, dalle mille possibilità, che offriva tutto a tutti, era di tipo culturale, un’offerta formativa ricca, densa, pregna; una nuova educazione sentimentale, relazionale, un nuovo modo di stare al insieme, di fare teatro, di fare musica, di fare politica.

Per carità, l’attraversamento delle ideologie forse poi l’ha avvelenata, tangentopoli l’ha stremata, ma non era la città della finanza, non era la città della borsa: era la città della sperimentazione, delle opportunità, non della sinistra, una città rossa; non solo. Era la città dei giovani.

Io sono venuto su passando da Franca Rame, Dario Fo, approdando al Teatro dell’Elfo, sedendomi educatamente al Lirico o cazzeggiando al cinema Messico. La questione è che oggi dovete dirmi chi ha preso il posto di Lucio Dalla o di Fabrizio De Andrè, e chi prenderà il posto di Enzo Iannacci, e Franca Rame, in un paese che non trova un erede neanche per Little Tony e per Califano.

Questa gente se ne va e ci lascia il deserto.