11 settembre 1973. Quando la notizia del golpe cileno rimbalzò in Italia io abitavo a Milano ed ero poco di più di un bambino, ma mia madre fu colpita profondamente da questa notizia e mi prese da parte con calma e con voce grave mi disse: “Luigi oggi è successa una cosa molto brutta” .

Io cessai le attività che impegnano un undicenne forse troppo sveglio e un po’ scapestrato come tutti i bambini che vengono su con il padre lontano… Con in braccio il frugoletto di mio fratello iniziò a parlarmi di Salvador Allende, con le stesse parole del presidente che tanta speranza aveva acceso nel mondo. I diritti, la libertà dal bisogno, la riforma agraria e la terra ai contadini. E poi del golpe , gli interessi di pochi delle multinazionali come la ITT e del ruolo degli americani da subito evidente e sfrontato.

Non so perché ma provai un dispiacere enorme , un tipo di dolore inedito che non avevo mai provato, una rabbia non mia si impadronì dei miei pensieri

Mia madre mi disse: “preparati che andiamo in piazza; devono sapere che qui da noi non permetteremo mai che una cosa del genere qualcuno la possa pensare”.

In quel momento capii che il golpe cileno non riguardava solo il popolo cileno, ma riguardava tutti. Tutti quei popoli che sceglievano una via diversa da quella che garantiva gli interessi di pochi a discapito dei molti.

Ed è cosi che mi trovai per la prima volta in un corteo per mano a mia madre e che sentii per la prima volta la musica andina che avrebbe anticipato l’avvento degli Intillimani.

E così che la mia coscienza civile democratica subiva un salto di qualità, un passaggio formativo indelebile e incancellabile che ancora oggi mi aiuta a capire da che parte stare, dalla parte chi ci ha lasciato dicendo: “Noi vivremo in eterno in quella parte di noi che abbiamo donato agli altri”