Solo tre anni fa la Sicilia era quella del 61 a 0, quella di 9 capoluoghi di provincia amministrati dal centrodestra come anche 8 province su 9 con una sola al centrosinistra. Elezioni regionali vinte, con un 65 a 35 tra Lombardo e Finocchiaro. In quel momento la Sicilia rappresentava il serbatoio di voti, insieme alla Lombardia, più importante per Berlusconi e per tutto il centrodestra. Il vicerè della Sicilia era uno dei fondatori di Forza Italia, Gianfranco Miccichè con il suo delfino che prendeva il nome di Angelino Alfano. Dopo tre anni, abbiamo Miccichè che ha fondato un suo partito sicilianista Grande Sud, Angelino Alfano che fa il segretario del Pdl, dopo esserne stato addirittura il candidato premier. Lo scenario amministrativo è ormai radicalmente diverso: a Palermo il governo Orlando e province e comuni che sono passati, uno dopo l’altro, nelle mani del centrosinistra.

Chi ha generato una situazione di questo tipo dovrebbe munirsi di una forte autocritica, ma è inutile dire che ciò non accade.

Il fatto che le elezioni regionali siciliane si tengano il 28 ottobre le fa diventare un passaggio fondamentale per quella che sarà la campagna elettorale delle politiche del 2013. Se il centrodestra riuscirà ad ottenere un’inaspettata vittoria, potrà iniziare una campagna elettorale per le politiche non da sconfitto scontato come lo è oggi. È per questo che Silvio Berlusconi, con la linearità di chi si approccia ancora alla politica con un certo pragmatismo, il 10 agosto ha chiamato Miccichè, che al momento era candidato di Grande Sud alla Regione Siciliana, e lo ha fatto candidato del Pdl. Candidatura che è durata il volgere di una notte perché le terze file del gruppo dirigente siciliano pidiellino lo ha impallinato, eliminandolo dalle scene e mettendo sul piedistallo Roberto Lagalla, rettore dell’università di Palermo e ultimo assessore alla Sanità del governo Cuffaro, in ticket con Nello Musumeci, inossidabile leader de La Destra, di estrazione e ispirazione missina che sembra non soffrire in termini di consenso i flussi dell’antipolitica.

In quel momento i giochi sembravano fatti e il centrodestra sembrava destinato a presentarsi addirittura con tre diversi candidati. Gianfranco Miccichè si inventa quella che è passata alla storia come la mossa del cavallo: ritira la sua candidatura e lancia quella di Musumeci, ottenendo in un nanosecondo il risultato di portare nel centrodestra il partito dei siciliani di Pistorio e Lombardo.

Quindi con un nuovo candidato e una nuova coalizione che appariva fortemente competitiva, il Pdl rischiava un isolamento politico ed elettorale che però è durato quarantotto ore perché immediatamente dopo, archiviato Lagalla, anche il Pdl si aggregava alla candidatura voluta da Gianfranco Miccichè.

In quel momento la difficoltà era di relazioni e di comunicazione: come era possibile, in poco più di un mese di campagna elettorale, rinunciare ai rancori alimentati dalle parole grosse che dentro questo schieramento erano state spese negli ultimi anni, nessuno esente.

Questo il compito principale di Nello Musumeci: riuscire a dare immediatamente una prospettiva che non negasse le responsabilità che in Sicilia sono di tutti, nessuno escluso, e attraverso un approccio innovativo potesse contribuire a trasformare una classe dirigente che, nell’assunzione delle responsabilità, potesse ridare speranza al centrodestra, ai siciliani e in generale alla politica.

Tutto questo è stato reso possibile dal passo indietro di Gianfranco Miccichè, ma, da quel momento, era necessario che si passasse dalle offese ai riconoscimenti reciproci e alla pianificazione di prospettive per far uscire la regione dalla secca nella quale si trova.

Tardivamente, ma non a caso, proprio ieri, anche se ai limiti del tempo massimo, Angelino Alfano sul Corriere della Sera si è prodigato in una lusinghiera dissertazione del ruolo politico di Grande Sud, del suo gruppo dirigente e dello stesso Gianfranco Miccichè. Ma nello stesso giorno, mentre il segretario del Pdl dava una carezza a Grande Sud, uno dei suoi colonnelli, in un’intervista, provvedeva ad avvelenare i pozzi, mettendo in evidenza che neanche una futura vittoria scontata può rasserenare gli animi e cancellare tre anni di rancori e insulti reciproci e attivando una riflessione molto chiara: le alleanze non si fanno per vincere, ma per governare. E se i problemi non si risolveranno in questa fase, imploderanno nelle mani di Nello Musumeci quando avrà bisogno del massimo sostegno per rimettere in piedi la Regione.

Continuano giochi, giochetti, trappole, agguati come se la crisi non mordesse, come se la gente non avesse raggiunto uno dei momenti di massima difficoltà, come se la spartizione del potere fosse qualcosa di separato e distinto, un tragico gioco di società che mi ricorda la caccia alla volpe fatta sulla pelle della povera gente.

Gli interessi si sovrappongono, entrano in contrasto: il Pdl non è governato se il suo leader carismatico, di cui tutti i pidiellini bramano la capacità di raccogliere voti e di persuadere la gente, si fa fermare da un drappello di funzionari di apparato: non siamo di fronte a un partito democratico, ma a un partito senza leader oppresso dai ricatti e da mancanze di visioni. Come può, quindi, il Pdl giurare fedeltà al popolo siciliano e nello stesso tempo al governo Monti? Quando questi due giuramenti entreranno in contrasto saranno ancora i siciliani a pagarne le conseguenze.

E come può il Pdl appoggiare un candidato espressione della società siciliana e nello stesso tempo lavorare alla riconquista dell’alleanza con la Lega Nord? Come possono rimanere nella stessa coalizione Gianfranco Miccichè e Giulio Tremonti?

Il carisma del leader appare così debole di fronte a queste domande che vanno poste ora.

La questione centrale è proprio che il Pdl è capace ancora di attrarre voti, va riconosciuto, ma incapace di essere punto di riferimento centrale per i moderati, schiacciato tra la voglia di vincere e la paura di governare e tra il desiderio di compiacere e la necessità di decidere.

Sull’altra sponda, la decisione dell’Udc di Casini di seguire il candidato Crocetta appare dettata più da un interesse romano che non da un processo territoriale. La volontà di Casini è di sperimentare l’accordo Udc Pd, che dovrebbe emarginare Sel e Idv, ma con il rischio che Fava, candidato di Sel, possa portare a casa più voti dello stesso Crocetta e che un altra mossa del cavallo, messa in campo da Orlando, possa spaccare tutto come è accaduto a Palermo, dove il consenso è uscito dal controllo dei partiti consegnando un risultato difficilmente prevedibile mesi prima delle elezioni. Unico ostacolo è che non credo che Ingroia accetti una discesa in campo senza garanzie.

Ma visto che l’Udc è governata da interessi nazionali e che non ha avuto scrupoli a spaccare nello Terzo Polo lasciando a piedi Rutelli prima e Fini poi, non può pensare di effettuare questo passo così rischioso e far battezzare questo accordo con il Pd da una sconfitta che avrebbe un riverbero a livello nazionale molto forte e che sta costando, per la candidatura di Crocetta, grandi dissensi tra le autorità ecclesiastiche cui Casini tiene molto.

Quindi quando Gianfranco Fini dice che gli scenari sono in movimento parla di cose di cui probabilmente è informato ed è molto probabile che le candidature e gli schieramenti così come oggi sono disposti in campo non saranno quelli che si presenteranno alle elezioni.