patto

C’è stato un tempo, nella politica come nella diplomazia, in cui l’arte di mantenere un segreto era tenuta in gran conto, anche dall’opinione pubblica.

Un tempo in cui la riservatezza misurava il grado di affidabilità di uno statista e la sua capacità di tutelare quella delicatissima fase in cui progetti ed idee prendono forma, prima di essere trasformati in azione politica.

Un tempo, insomma, in cui il “segreto” era un presupposto fondamentale, che consentiva di misurare e controllare la rappresentazione pubblica della realtà.

Quel tempo, però, oggi è passato. Nell’era dei social network, del cospirativismo diffuso e del culto del retroscena, il “segreto” è diventato un fattore di vulnerabilità. Oggi tutto accade – e deve accadere – sotto i riflettori che illuminano il palcoscenico della politica. E proprio la politica, che sia la “politics” delle campagne elettorali permanenti o la “policy” del governo della cosa pubblica, è rigorosamente legata alla sua capacità di essere comunicata, alla sua narrazione.

Tutto è fuso insieme, in un unico blocco emotivo, come in una gigantesca partita a scacchi trasmessa in mondovisione, in cui il movimento dei pezzi sulla scacchiera deve essere credibile e convincente. Ecco perché il “patto del Nazareno” è in crisi.

Chi lo ha sottoscritto non ha saputo contrastare il sospetto – diffuso – che i contraenti avessero nascosto all’opinione pubblica il vero oggetto dell’accordo. E che questo accordo fosse, in ultima analisi, inconfessabile. Ma non è più possibile, nella società contemporanea, stringere un “patto fondativo” che influenza il destino un’intera nazione – un’operazione che richiede un certo grado di sacralità – come se si firmasse un qualsiasi contratto tra privati. Oggi il “patto” sembra vacillare sotto i colpi abilissimi di Renzi. E nessuno è in grado di comprendere pienamente chi (e cosa) sia stato tradito, proprio perché nessuno è stato testimone della sua sottoscrizione. L’unica cosa che si capisce, perfettamente, è che a vincere è stato proprio Renzi.

Ma si trattava di un esito ampiamente prevedibile. Oggi la comunicazione politica è chiamata a gestire un enorme (e apparentemente indistinto) flusso di informazioni, che consegnano all’opinione pubblica l’idea di chi sei e di cosa fai. E ridursi, come è incredibilmente accaduto ieri, ad Agorà a delegare la propria rappresentazione pubblica a Razzi, è il degno epilogo di un’operazione nata sotto i peggiori auspici. Ed è un vero peccato perché rischia di essere un’occasione persa.

Editoriale pubblicato su Il Tempo