crisi

Proprio nel giorno in cui Barack Obama, nel suo discorso sullo Stato dell’Unione, lancia lo slogan “diamo un aumento all’America”, chiedendo a imprenditori e aziende pubbliche di aumentare gli stipendi ai lavoratori come antidoto alla crisi, in Italia si dibatte sulla multinazionale svedese Electrolux e sul fatto che, per mantenere i posti di lavoro nel nostro Paese, fosse praticamente necessario dimezzare gli stipendi.

Nessuno, naturalmente, accenna al fatto che il problema della conservazione del livello occupazionale – invece che sottraendo metà del salario ai lavoratori – potrebbe anche essere risolto abbassando le tasse sul lavoro, che in Italia sono tra le più alte dell’Occidente.

Omaha beach

Mentre l’uomo più potente del mondo lancia una prospettiva, dunque, noi siamo ingabbiati, impotenti di reagire alla crisi, stretti tra regolette senza senso e “compiti a casa” imposti dai professorini della Ue. Intanto, vediamo ogni giorno il declino avvicinarsi sempre di più. E non il declino del Paese, o dell’economia. Il declino della speranza.La perdita delle possibilità, in questo contesto, diventa una condanna inappellabile, eseguita senza pietà in un marasma di leggi inutili. Con gli italiani soffocati da banche, vessati da una burocrazia strafottente, intimoriti da una giustizia arrogante, sfottuti da una classe politica impreparata e scollegata dalla realtà, in preda a una lotta fra bande, fra schieramenti incapaci di uscire dalla logica dell’interesse personale.

La mancanza di prospettiva, la perdita di un sogno e, dunque, il declino. È questa, ormai, la cifra del Paese. Un Paese in cui il 10% dei cittadini possiede la metà delle ricchezze e tutti gli altri faticano a campare. Un Paese governato da istituzioni delegittimate, dove chi parla di soluzioni fa più paura di chi ha creato i problemi. Un Paese in cui la coscienza collettiva è, lentamente ma inesorabilmente, evaporata.

Siamo in uno stato di guerra, insomma. Ma non una guerra come tutte le altre. Non ci sono più spartani e persiani che si combattono a Platea. O alleati e nazisti che si scontrano sulle spiagge di Omaha Beach. In questa guerra non si capisce chi è nemico di chi, ma si contano i morti, i dispersi e i profughi. È una guerra senza eroi, fuori dal mito. Resta solo l’odore di vittime che non avranno neanche l’onore di essere seppellite in un cimitero di croci bianche.

Le cose vanno chiamate con il loro nome. Non siamo di fronte a una crisi economica, ma a una guerra economica: la prima dell’era moderna. E nel bel mezzo di questa guerra ci ritroviamo in uno stato a sovranità limitata, occupato da forze straniere che curano i propri interessi, in diretto contrasto con i nostri. E adesso, come scriverebbe Lenin, “Che fare?”.