Di Paolo Pillitteri Qualche anno fa un geniale comunicatore e sondaggista, Luigi Crespi, quello – per intenderci – del patto con gli italiani firmato dal Cav nel salotto di Bruno Vespa, lasciò la parola ad uno dei più famosi esperti di campagne elettorali, il francese Seguela, autore, tra l’altro, del memorabile e vittorioso “manifesto” mitterrandiano “Una forza tranquilla”.

Seguela aveva puntualizzato il tema di fondo della campagne elettorali di oggi e di sempre, con riguardo anche a quelle di Berlusconi, ricordando che “si vota per un destino, non per una banalità”. A sua volta, il Presidente Mitterrand insisteva su un aspetto di fondo della comunicazione politica: “Viene eletto – diceva il Presidente socialista francese – colui che racconta al suo popolo quel pezzo di storia che ha voglia di ascoltare in quel preciso momento”. Queste riflessioni mi sono venute alla mente a proposito del tema padano sollevato da Fini, sulla esistenza o meno della Padania, sulla sua leggenda che pure nuoce alla coesione unitaria del paese, all’isola che non c’è ma che, in nome e per conto suo, infiamma la verdi speranze, fors’anche secessioniste, della Lega. La Lega, depositaria del marchio padano da tre lustri, è anche e soprattutto un esempio di comunicazione politica in linea con quanto dicevano sopra i Crespi, i Seguela e, si parva licet, Mitterrand. Raramente la Lega ha sbagliato il tipo di comunicazione sia quella fondamentale contro “Roma ladrona”, ovvero l’invocazione al fare da sè del Nord fino alle estreme conclusioni separatiste, sia negli interventi spiccioli, contro i “costi eccessivi dei calciatori” (da cui l’ultima invettiva bossiana contro gli azzurri e le partite comprate) sia nel ruolo governativo “vogliamo il federalismo”. Sempre e comunque i leghisti e i loro rituali pontidiani, assumono la Padania come obiettivo da raggiungere invitando i padani, cioè il Nord, a votare non per una banalità, ma per un destino: la Padania, appunto. E la comunicazione in questo senso è una narrazione ininterrotta al loro popolo (che c’è) di un pezzo di storia che ha voglia di ascoltare in quel preciso momento.

La Padania non c’è, si sa. La gloriosa Società Geografica Italiana, una sorta di Corte di Cassazione per simili questioni, l’ha recentemente certificato. Ma il problema non è questo, o soltanto questo. Non riandiamo al Risorgimento e a Cavour – che pure pensava ad uno Stato del Nord – ma, almeno, dovremmo tutti dare per scontata la geniale e miracolosa unità d’Italia, che è cosa diversa dal come si è fatta e da come è oggi percepita. Stando così le cose, occorre essere chiari e franchi: la Padania non c’è, ma c’è il popolo padano che vota Lega. La Lega che oggi è al governo. Il che la indebolisce perché contraddice oggettivamente la sua profonda anima secessionista, che esiste perché il sogno, come dice Bossi, è la Padania, non solo quel Nord compatto, produttivo, ricco e trainante che vediamo, ma la Padania in sè, come macroregione capace di scindersi dal corpo italiano per via di un Sud parassitario e grande evasore. Certo, il Bossi di governo chiede, al e dal governo, il federalismo per rimediare, ma la stessa soluzione la vogliono altri, forse tutti, compreso Fini. Ma forse non servirà o non ci sarà. Nel qual caso dovrebbe scattare, su impulso leghista, la separazione? Tutto è possibile, basti pensare a Valloni e Fiamminghi in Belgio. Ma la nostra situazione è diversa avendo l’Italia una unità culturale e linguistica ancor prima che storica e geografica. Il vero tema è la grande distanza economica e sociale fra Nord e Sud nostrani che andrebbe inquadrata fuori da schemi assistenziali, col federalismo ma anche con potenti stimoli e incentivi privati, non pubblici. Un supertema in auge da decenni. Va poi aggiunto con altrettanta chiarezza, in questa polemica devastante e un po’ fuori tempo, fra Nord e Sud, che il sogno una volta avverato di una Padania divisa dal resto dell’Italia, si trasformerebbe ben presto in un incubo, in un disastro. La Padania sarebbe una vera e propria sciagura per gli stessi secessionisti. Infatti, in tempi di globalizzazione, con l’economia su scala planetaria, occorrono nazioni grandi e non piccole, entità possenti anche geograficamente, in grado di competere coi colossi su scala mondiale, altrimenti si hanno grandi teste con piccoli corpi. Il Nord ha bisogno del Sud e viceversa. Simul stabunt, simul cadent. Forse Bossi non lo sa. Ma Berlusconi sì. (L’Opinione)