berlinguer

Il monologo con cui Paolo Rossi ha aperto la seconda punta di Ballarò dell’era-Giannini mi ha colpito profondamente. Perché la cosiddetta “copertina satirica” del talk show di Rai3 è stata una rappresentazione drammatica e disperata, di uno stato d’animo comune a molti.
Più che un monologo, quello di Rossi è stato un dialogo con un “archetipo” – nella fattispecie Enrico Berlinguer – innescato da un meccanismo di traslazione del tempo. L’attore friulano parla con il leader del Pci in un sogno e cerca di rispondere alle sue domande sul presente, nascondendogli – per pudore ma anche per codardìa – una realtà che il buon Enrico non sarebbe stato in grado di accettare e forse neppure di comprendere. Quello di Paolo Rossi è un dialogo struggente con il proprio passato, con il proprio stesso motivo di esistere.

Ma cosa rappresenta Berlinguer per la generazione di giovani che si sono socializzati negli anni ’70 e che intorno a lui hanno formato la classe dirigente della sinistra? I “ragazzi di Berlinguer” hanno in comune un forte senso dell’etica, dei valori, dello Stato, oltre a una visione italiana e non più sovietica del socialismo.
Ma quello di Berlinguer e dei ragazzi che sono cresciuti insieme a lui è un mondo semplice. La contestazione giovanile, Woodstock, i “due Giovanni” (Giovanni XXIII e John Fitzgerald Kennedy), con i cambiamenti politici, antropologici e culturali di quegli anni, avevano rappresentato un movimento di prospettiva, che guardava al futuro, che metteva in moto i giovani con la promessa di una società più giusta, più libera e più equa. Berlinguer entra dunque in scena in un mondo caotico, pieno di problemi – la crisi economica, l’austerity, il terrorismo – affrontando questi nodi con un rigore e una serietà che diventano il patrimonio di una larga parte dei giovani di sinistra. Ma la sua è una visione semplificata, quasi semplicistica, del mondo: gli operai sono sfruttati dai padroni, le donne devono essere liberate dal giogo del maschilismo, i buoni stanno da una parte e i cattivi dall’altra.


Lo schema berlingueriano è facile da comprendere: essere di sinistra significa desiderare un mondo migliore e una società più giusta. In una prospettiva internazionale ancora non del tutto integrata con l’Occidente, ma almeno “terzista” e non più sovietica. Un comunista, per Berlinguer, deve essere fedele alla propria moglie e fare bene il proprio lavoro. Essere comunista diventa una condizione che attraversa orizzontalmente l’esistenza, fino quasi ad assumere i contorni di una dimensione spirituale. Questa visione, che coinvolge migliaia di giovani, contiene in sé l’idea che i comunisti italiani siano diversi dagli altri. E che, soprattutto, siano migliori dei non comunisti, in piena continuità con gli insegnamenti gramsciani. Si tratta, insomma, di un mondo ordinato e schematico. O questo, almeno, è il mondo di allora visto con gli occhi di un comunista.
In realtà il mondo stava già cambiando. I comunisti continuano a puntare il dito contro lo sfruttamento degli operai quando ormai i ritmi della società sono dettati dal terziario. I sindacati sono sempre più composti da pensionati piuttosto che da lavoratori. Il Muro di Berlino si sta lentamente sgretolando. I diritti si trasformano in privilegi.
Tutto stava cambiando, dunque, ma i comunisti continuano a interpretare la realtà con gli schemi del passato. È in questo momento storico che la sinistra comincia a diventare conservatrice. Il massimo livello di diritti e tutele è stato già raggiunto grazie alle lotte operaie e studentesche. E tutto quello che rimane è la difesa di ciò che si è conquistato.
La sinistra, in quel momento, non ha la capacità di rielaborare e di reinterpretare i nuovi bisogni, le nuove criticità emergenti, i nuovi problemi. Non comprende che la società sta passando dalla massificazione all’individualismo. E questo la costringe a una battaglia di retroguardia, in difesa dei diritti acquisiti.
Tutto quello che resta di quella stagione della sinistra è una manciata di simboli – come l’articolo 18 – che è ormai diventato il feticcio della propria identità perduta. Ma ormai si tratta, appunto, di simboli, che non hanno niente a che fare con i bisogni reali della gente. Quello che resta di quella stagione è una classe dirigente che non si è incarnata nel cambiamento, ma nella resistenza ad esso. Una classe dirigente preparata, di un livello culturale altissimo, che dopo tutti questi anni è riuscita solo a consegnarci il disastro che abbiamo di fronte agli occhi.
Dopo la fase rivoluzionaria di Andy Warhol, del rock, dei diritti civili, dell’esplosione della creatività nel cinema, nella letteratura e nel linguaggio, si innesca un processo di normalizzazione della sinistra che ha convinto i propri esponenti della loro superiorità antropologica rispetto agli avversari, ma che non ha impatti positivi sullo sviluppo della società.
Questa classe di “eletti” – al termine del percorso quasi iniziatico che è stata la loro carriera di attivisti e di politici – si staglia al di sopra degli altri, ma in una realtà che si è ormai capovolta. Una realtà in cui il cambiamento è incarnato da Ronald Reagan e Margaret Thatcher, invece che da François Mitterrand o Bill Clinton. Gli innovatori diventano conservatori. E viceversa.
Di fronte a questa tragedia generazionale gli uomini nella sinistra reagiscono in due modi diversi. Alcuni, come Paolo Rossi, rimangono prigionieri di quell’archetipo e di quella memoria, perché non sanno più come affrontare il mondo – complicato ed indecifrabile – che si trovano di fronte. E le poche volte che trovano il coraggio di affrontarlo riescono solo a peggiorarlo. Twitter, la Silicon Valley, lo storytelling? Meglio il piccolo mondo antico di Berlinguer, in cui ognuno aveva un ruolo e in cui tutto aveva un senso. Poi ci sono quelli che hanno attraversato questo tempo con disincanto, affrontando il mondo che cambia e cambiando a loro volta paradigma. Ai tempi di Berlinguer si telefonava con i gettoni, oggi si telefona con Skype. Se ne sono fatti una ragione.
La classe dirigente nata con Berlinguer, insomma, intrisa di gramscismo, si è dimostrata incapace di affrontare la modernità. E ieri Paolo Rossi ha messo in scena la rappresentazione plastica – e struggente – del fallimento di quella generazione.