cucciolo gufo

«Le metafore – secondo la poetessa newyorkese Jane Hirshfield – permettono alle parole di oltrepassare il proprio significato. Sono le maniglie sulle porte di ciò che possiamo sapere e di ciò che possiamo immaginare. Le metafore sono arte, non scienza. Ma possono comunque essere sbagliate». E quanto le metafore possano essere sbagliate, fuorvianti e perfino offensive, è un dato di fatto di cui gli italiani – negli ultimi mesi – si stanno perfettamente rendendo conto.

Della incomprensibile evocazione, da parte di Matteo Renzi, del mito di Telemaco nel discorso per l’apertura del Semestre italiano di presidenza Ue, abbiamo già scritto su queste pagine. Oggi, invece, vogliamo di occuparci di altri tre casi, che dimostrano come quello stato di «trance», che gli studiosi definiscono «sospensione dell’incredulità», capace di contagiare un pubblico particolarmente coinvolto in una narrazione – politica, commerciale o artistica, non fa poi troppa differenza – nella nostra sciagurata Italia sembri ormai aver colpito la mente degli «storyteller» di turno, lasciando la loro platea (cioè tutti noi) in uno stato di costernazione assoluta. Il primo esempio riguarda, ancora una volta, Renzi. Ora, noi non sappiamo di quali calamità si siano resi protagonisti, nei dintorni di Firenze, quei simpatici uccelli notturni chiamati «gufi». Probabilmente si tratta di qualcosa di orrendo, vista l’insistenza con cui il premier li continua ad accostare a chi – per stupidità o malvagità – si oppone alle magnifiche e progressive sorti del renzismo. Ma è il momento di battersi per restituire ai gufi il loro buon nome. Nella tradizione fiabesca moderna, il gufo è sempre rappresentato come un uccello saggio, spesso erudito, che diffonde la sua cultura in tutto il regno animale. Sono così Anacleto, il gufo che vive con Merlino ne «La spada nella roccia». Ed è così Uffa, il gufo che abita nel «Bosco dei cento acri» insieme a Winnie the Pooh. I gufi sono i preziosissimi postini dei maghi nella saga di Harry Potter. Perfino il gufo di Bambi è una personcina a modo. Renzi farebbe meglio a farle, queste benedette riforme, piuttosto che continuare a diffamare questi volatili perbene.

Il secondo caso di cui vogliamo occuparci è quello di Carlo Tavecchio, il candidato alla presidenza della Figc scivolato, nei giorni scorsi, sulla più classica delle bucce di banana. Per difendersi da chi gli chiedeva di fare un passo indietro dopo la gaffe, Tavecchio si è lamentato pubblicamente: «Mi hanno trattato come l’assassino di Kennedy». Ora, per fare la vittima Tavecchio avrebbe potuto utilizzare molte metafore relative ai «grandi cattivi della storia». Hitler e i nazisti sono ormai troppo inflazionati, ma restano pur sempre i terroristi di ogni latitudine, i barbari che razziarono l’Antica Roma, dozzine di serial killer assortiti, senza contare le varianti «fantasy» come vampiri e zombie.

Una metafora, per funzionare, deve coinvolgere a livello emozionale il proprio pubblico, utilizzando miti e archetipi che affondano nella coscienza profonda di ciascuno. Tavecchio, al contrario, ha utilizzato uno degli episodi più oscuri e controversi della storia occidentale, che ancora oggi fa dibattere i teorici delle cospirazioni in tutto il mondo. E forse l’ignoranza non basta a spiegare questa sua, ennesima, uscita infelice.
Il caso di Tavecchio, però, impallidisce di fronte alle frasi con cui il governatore del Veneto, Luca Zaia, ha paragonato l’esondazione del torrente Lierza a un «piccolo tragico Vajont». Qui non è questione di mettere sulla bilancia le duemila vittime del 1963 con le quattro di qualche giorno fa. I morti non si pesano, ma le parole sì: e quelle di Zaia dimostrano un’abissale mancanza di spessore che neppure duemila visioni (forzate) del monologo teatrale di Marco Paolini potrebbero curare. Nella coscienza collettiva del paese, poi, e soprattutto dei veneti, le responsabilità del Disastro del Vajont sono da attribuire alla società elettrica SADE (che volle costruire la diga ad ogni costo) e, in generale, alle istituzioni. Cosa voleva fare, dunque, Zaia? Confessare?

«Le favole – scriveva G.K. Chesterton – non servono per dire ai bambini che i draghi esistono. Questo, i bambini, già lo sanno. Le favole servono per dire ai bambini che i draghi si possono uccidere». Dovrebbe essere, quello descritto dallo scrittore inglese, lo scopo nobile di ogni narrazione, il fine ultimo di ogni metafora. Ma questo è possibile solo quando i narratori, gli «storyteller», sono all’altezza della situazione. Visto come vanno le cose in Italia, sarà meglio iniziare a preparare qualche «rifugio anti-drago».