Di Dimitri Buffa – C’è un paese pregiudicato le cui vicissitudini giudiziarie si aggirano per l’Europa. Anzi per le stanze della Corte europea dei diritti dell’uomo, per gli amici Cedu. Questo paese si chiama Italia, viene condannato trenta volte l’anno, è sempre in libertà provvisoria, e ricasca continuamente nello stesso reato: non rispettare i diritti più elementari della convivenza civile. I cosiddetti “diritti dell’uomo”. E questo tanto per la questione delle carceri ormai diventate una discarica sociale di emarginati, drogati e extra comunitari, vittime di leggi infami come la Bossi Fini e la Fini Giovanardi, quanto per le questioni del pianeta giustizia. Penale o civile che sia.

E proprio come un pregiudicato che faccia avanti e indietro per le galere europee, l’Italia si difende dilazionando i tempi delle numerose condanne e ricorrendo fino all’ultimo grado di giudizio contro le sentenze del Cedu che periodicamente la condannano.

Su questi ricorsi ci mette poi la faccia la ministra Guardasigilli Paola Severino, di recente candidata in maniera un po’ affrettata come possibile quota rosa per il Quirinale. La nota avvocatessa dello studio Flick, professionista affermata con dichiarazioni dei redditi da 10 milioni di euro l’anno, ha infatti presentato un ricorso in appello alla Grand Chambre della Cedu contro la sentenza di Strasburgo che lo scorso gennaio condannava il nostro Paese per trattamenti inumani e degradanti ai danni dei detenuti.

Rimane un mistero cosa possa avere eccepito la ministra papabile per il Colle più alto contro quella sentenza di condanna. Sacrosanta.

Pesanti i rilievi dell’Unione delle Camere penali italiane che hanno definito l’iniziativa così: “E’ evidente che la decisione di impugnare serva solo a guadagnare tempo, lo stesso tempo che in questi tre mesi non ha visto alcuna iniziativa che anche lontanamente potesse andare nella direzione indicata dalla Cedu. Questo atto è dunque una ‘tattica dilatoria’ del tipo di quelle che vengono sempre attribuite a chi vuole semplicemente ritardare gli esiti dei processi. Il problema è che qui è lo Stato a metterla in pratica, e per di più su una materia come quella dei diritti fondamentali, che richiederebbe quanto meno un minimo di coerenza”.

Analogo il commento dell’avvocato radicale ed ex consigliere regionale del Lazio Giuseppe Rossodivita: “Sappiamo che la prescrizione è a volte uno strumento utilizzato da chi se lo può permettere per uscire da processi che possono portare alla condanna. Dopo aver letto le prime dichiarazioni su questa decisione di impugnare la sentenza, sembra di capire che lo Stato faccia lo stesso: per evitare che iniziasse a decorrere, dopo tre mesi dalla pronuncia, quell’anno di tempo che la Corte Europea dei diritti dell’uomo ci ha imposto per rientrare nella legalità della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, per evitare che una sentenza diventi definitiva, per prendere altro tempo, nella consapevolezza che un ricorso non potrà portare che a una conferma della sentenza emessa in prima istanza, lo Stato, come un delinquente abituale che punta alla prescrizione, dice: anziché sentire il dovere di tornare nella legalità, prendo altro tempo”.