CAT STEVENS SANREMO

Non sono tra i 12 milioni di persone che hanno visto il Festival di Sanremo. Non riesco più a tollerare il perbenismo radical chic della banda Fazio. L’espressione più demodé del politicamente corretto. Lui, Gramellini, la Littizzetto, questa banda di giro capace di fustigare i deboli, di evidenziare ciò che è evidenziato, di marcare ciò che è marcato, in una ripetizione ossessiva di una rappresentazione di se stessi, sempre più barocca, sempre più borghese, kitsch, tremendamente superficiale e liquidatoria.

Certo non è Sanremo il luogo delle novità, dell’innovazione dell’avanguardia, non è da lì che ti aspetti le cose che cambino il mondo, non è il suo compito, però lo è stato.

Tuttavia, non ho rinunciato a rivedermi il giorno dopo, in maniera selettiva, quello che Sanremo ha offerto a quelli della mia generazione: Cat Stevens. Intorno alle sue canzoni, un’intera generazione ha costruito la propria educazione sentimentale. Il suo ritiro dalle scene nel 1978 non lo ha sottratto al pubblico. Dopo di me, mia figlia e le generazioni successive hanno continuato ad ascoltarlo con lo stesso spirito con il quale lo ascoltavamo noi.

In un’epoca nella quale la gioventù viene rappresentata come un valore supremo e non come una condizione transitoria, ci troviamo di fronte a un personaggio che ha a che fare con l’eternità: il valore delle cose che esprime rompe con il concetto di tempo che passa.

E allora, nel riproporre le sue vecchie canzoni, Peace TrainFather and son, a partire dai testi, ci rendiamo conto che quando le cose hanno un valore non sono giovani o vecchie, ma sono eterne. Ciò che è stato, ma è stato veramente, non è mai passato.

La vera sfida per Cat Stevens, che improvvisamente è ritornato sulle scene, era quella di proporci un nuovo brano. Quali novità avrebbe portato? In che misura avrebbe contenuto tutti i grandi cambiamenti dal ‘78 a oggi? Ci avrebbe stupito con contaminazioni hip hop, oppure rappresentando il nichilismo o il cinismo che attraversa le nostre vite? O si sarebbe fatto carico, il cantautore gallese, di tutte le contraddizioni, le crisi della nostra società?

No, Cat Stevens si presenta sorprendendoti, in un modo emozionale da icona, e citando un’icona. Riesce a farti sobbalzare, a 50 anni come a 18, trasmettendoti un’energia pura, unica, non con la sorpresa del nuovo, non con qualcosa di mai visto, ma, semplicemente, citando i Beatles. Con un messaggio che è quello del ’78: pace e amore.

E chi ha ascoltato quella canzone e ha avuto la fortuna di non vedere mai “Stranamore”, ha pensato che quella canzone fosse sua, immanente, di quel momento e che fosse bellissima come di fatto è.

Il punto non è che Cat Stevens è invecchiato bene: è che certe cose non invecchiano, certe cose non passano, e molte altre non superano l’esame del tempo e si perdono nella memoria, indipendentemente da chi vuole accelerare questi processi, da rottamatori rottamati, da moderni modernisti, da cambi cambiati.

Occhio, il mio non è un discorso nostalgico: è che la modernità e il futuro esistono e persistono solo se sono un divenire e il divenire non può che contenere il passato.