Il mio incontro con Lucio Magri, quando avevo poco piu’ di vent’anni, fu folgorante. L’idea che mi lascio’ era di un uomo capace di cambiare le cose, la storia, e che ne aveva l’intelligenza, la competenza, la volonta’.
L’incontro con Lucio Magri fu un’allucinazione. Nulla delle sensazioni che percepii parlando con lui trovarono riscontro nella realta’ e la sua fine, il suo suicidio assistito, è l’ennesimo tradimento della storia di un rivoluzionario. La ritualita’ clinica, asettica, assistita, nega il senso stesso della morte. Certo lo sappiamo, la depressione e’ un male ignobile, infame, che ti mangia l’anima. 

Ma Lucio Magri ha rappresentato, soprattutto per i ragazzi della mia generazione, qualcosa di piu’. Lui, la Castellina, Valentino Parlato, il Manifesto, hanno mantenuto fervida, lineare, la volonta’ di cambiare, il coraggio di essere controcorrente e anche di sbagliare. E anche il gusto di essere consapevolmente in errore.

Ma l’omicidio assistito, nella liturgia melodrammatica degli amici e dei compagni che aspettano la telefonata del boia bianco svizzero, la descrizione asettica della casa, dei parenti, dei ricordi, della morte innaturale, taglia la dignita’ di chi “va in culo” alla vita buttandosi dalla terrazza come ha fatto Monicelli. Mostra quel pelo di vilta’ e di mancanza di coraggio di quei rivoluzionari che rimangono solo una massa di sconfitti. Romantici, belli, ma sconfitti.

Un pezzo della mia vita, del mio percorso umano, professionale e politico e’ legato a questa fine cosi’ poco rivoluzionaria e che lascia tanto amaro in bocca.